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Presentazione della personale "La vita che ci attraversa",
Castello angioino aragonese di Agropoli - luglio 2022
Roberto Maffione
Sicuramente non tutti conoscete i lavori precedenti di Anna Maria Moramarco, ma potete averne un’idea dalla brochure, guardando le immagini delle due prime serie di dipinti: “nella pietra” e “il sogno dei corpi”.
Nonostante l’evidente cambiamento, restano alcuni profondi elementi di continuità fra i lavori presentati qui ad Agropoli per la prima volta e quelli precedenti:
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Il primo è la centralità della figura umana;
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il secondo è il fatto che questa figura è sempre immersa in un mondo di forme astratte che va oltre di essa.
Ma nelle serie precedenti la figura era come gettata in un universo caotico di forme tridimensionali, che avevano la compattezza e la durezza della pietra. Un mondo nel quale i corpi umani erano imprigionati. Il sentimento dominante era quello della tristezza, intesa come senso della vita bloccata.
Ora la figura è immersa in un mondo altrettanto caotico, ma fluido, di colori e di forme frammentate che attraversano i corpi umani, ma non li imprigionano.Non si può dire che il sentimento dominante sia la gioia, ma piuttosto un’incerta e difficile ricerca della gioia, cioè del sentimento della vita che fluisce, della potenza di agire che cresce, il sentimento espansivo di essere tutt’uno con il mondo.
Cercherò di analizzare in questa chiave i quadri presentati in questa personale. Attenendomi proprio al titolo della mostra: la vita che ci attraversa.
Il punto di partenza è la figura umana colta di volta in volta in una postura che rivela una certa relazione con il mondo e allude ad una possibile storia.
Dal punto di vista pittorico questo è il livello più propriamente figurativo dei dipinti.
La storia che queste figure raccontano, in modo più o meno diretto, ma sempre con una evidente carica emotiva, è quella di un conflitto. Il conflitto fra libertà di movimento e costrizione, fra la vita e gli ostacoli che la bloccano.
La figura umana quasi sempre si misura direttamente con un limite, che molto spesso appare come un vero e proprio muro che è fisicamente costretta a spingere in eterno per fare spazio alla luce come in Sisifo, oppure una sorta di pressa che minaccia di schiacciarla come ne Il solido e il liquido, o un vecchio muro contro il quale si appoggia stanca, come ne La donna serpente.
A volte, con un sottile gioco ironico fra figurazione e astrazione, questo limite è il limite fisico della tela, come ne La scatola o ne La signora del bosco. Qui l’immagine rappresentata, che dovrebbe vivere in uno spazio virtuale, oltre il piano di proiezione del quadro, sembra rendersi conto di essere nient’altro che colore su di una tela e cerca di uscirne forzandone i limiti. Anche in Inclinazione vi è un gioco simile. Sembra che la figura pieghi la testa per entrare nei limiti troppo angusti della cornice.
E poi ci sono i muri mentali. Quelli che ci impediscono di comunicare, come ne L’urlo o quelli che ognuno di noi costruisce nella sua testa, come in Mondi. In alcuni quadri il limite non esiste, semplicemente perché la figura è chiusa in sé stessa, in un suo sogno, come in Ofelia o ne Il sogno di Blake.
Solo ne L’isola c’è la visione di un corpo trasfigurato, un corpo che ha superato ogni limite, fino a identificarsi con il mondo, fino a diventare una sorta di pianeta nella profondità della notte.
A questo livello “figurativo” e “narrativo” se ne sovrappone un altro astratto, fatto di flussi di colore e di forme frammentate che riempie l’immagine attraversando la figura.
E’ un mondo caotico che con le sue sovrapposizioni crea una varietà di forme impreviste.
Ma la figura non è deformata né trascinata da questo flusso. Conserva la sua forma definita.
Viene ripreso qui ad un altro livello, il conflitto precedente, ma su un piano più essenziale.
Prima la figura si confrontava con dei limiti esterni che in qualche modo ne bloccavano il movimento. Ora è la figura stessa ad essere il limite, con la sua forma chiusa nel suo contorno, contrapposta al flusso astratto che le si sovrappone.
Questo nuovo livello sembrerebbe volere dire che a bloccarci non sono più le circostanze dell’esistenza, ma noi stessi in quanto realtà individuale, parziale e provvisoria separata dalla vita in quanto flusso privo di forma e in continuo mutamento.
Ma proprio questa sovrapposizione quasi casuale di forme astratte sulla figura produce una immagine e un procedimento che vanno nella direzione di una ricercata espressione della gioia.
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Il corpo tatuato prende il posto del corpo imprigionato, come immagine simbolo dell’intera serie di dipinti.
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Il quadro come palinsesto, nel quale il colore e la forma sono liberi di disporsi e stratificarsi, prende il posto dello spazio prospettico con la sua “tirannia” sulle forme e sui colori.
Il corpo tatuato è l’esito automatico della operazione di sovrapposizione e intersezione delle forme astratte alle figure, ma è anche una sorta di parola d’ordine. Come lo si riconosce nei dipinti di Anna Maria Moramarco, Il tatuaggio non è un segno di distinzione individuale, con eventuali rimandi alla biografia personale, ma è né più né meno che la proiezione del mondo sul corpo. Il CORPO TATUATO è il corpo che si fa mondo perché il mondo si iscrive sulla sua superficie. Il corpo tatuato è il corpo che vuole accogliere in sé il mondo, la vita in ogni sua espressione, anche a costo di perdere la propria identità individuale, anzi proprio per perderla.
Il metodo della stratificazione, sovrapposizione e intersezione di piani rimanda ad una particolare idea del quadro né figurativa, né astratta, ma all’idea del QUADRO-PALINSESTO.
Il palinsesto in età medievale era una pergamena riutilizzata, su cui venivano scritti più testi in successione, cancellando il testo precedente, che restava comunque ancora in parte leggibile e decifrabile.
L’idea di palinsesto rimanda ad una sorta di estetica della complessità che non teme il caos e il disordine.
Il quadro, come il mondo, ci appare caotico perché è la coesistenza e sovrapposizione di tanti piani e di tanti ordini ciascuno dotato di una propria autonomia e libertà, che si intersecano producendo continuamente forme nuove e imprevedibili.
E questa capacità di generare qualcosa di imprevisto consente di superare i limiti delle categorie e classificazioni abituali, facendo del palinsesto un vero e proprio procedimento creativo.
Per questa sua volontà di cercare la pienezza della vita confrontandosi con il caos, la pittura di Anna Maria è pienamente moderna. Affronta il caos per estrarne un ordine possibile, che non sarà più quello della figura, ma che leghi insieme forma e flusso, figurazione e astrazione.
La parte più importante e intensa del lavoro pittorico di Anna Maria comincia proprio nel momento in cui si confronta con il caos delle intersezioni casuali, per estrarne delle occasioni, delle linee di forza capaci di dare una direzione, un ordine all’immagine. Per lei ogni quadro è un’avventura, perché ciò che ne determina l’esito, l riuscita o il fallimento, sono gli incontri casuali fatti lungo il cammino e ciò che da questi incontra si sarà capaci di ricavare.
In questo processo, che è il cuore del processo di creazione del dipinto, l’elemento unificante è il colore. Il colore attraversa tutti gli strati dell’immagine e come un’onda di energia li vivifica e conferisce al dipinto la sua immediata forza espressiva.
Per concludere si può dire che:
Con l’energia del colore queste immagini ci catturano.
Con la loro complessità stratificata ci interrogano.
Atlante dell'arte contemporanea, De Agostini 2020
pp.773-775
Anna Maria Moramarco vive e lavora a Potenza. Consegue la laurea in architettura e parallelamente studia pittura. La sua formazione di architetto le consentirà di creare opere di grande originalità, caratterizzate dalla presenza di volumi geometrici complessi in "crescita organica".
Entità spaziali scandite con chiarezza e sottolineate da una meditata giustapposizione cromatica sono spesso i soggetti dei suoi dipinti. In Kosmos ad esempio, l'artista crea una specie di dittico, dove due scene indipendenti l'una dall'altra, seppur in apparenza molto simili, rappresentano con sottili divergenze uno stesso evento. Centralmente si staglia un possente corpo geometrico che sembra provenire dal cielo. Esso incombe nel paesaggio, sospeso tra le nubi e uno specchio d' acqua.
Nella prima scena, al di sotto di questa costruzione, un pesce nuota ignaro del pesante volume che sembra stia per crollargli innanzi, in quella contigua, invece, apre la bocca quasi spaventato. Mirabile è la capacità di rendere con verosimiglianza i riflessi nell'acqua della struttura e del paesaggio circostante. Il ductus pittorico e l'ambientazione surreale richiamano alla mente le opere di René Magritte, sebbene Anna Maria Moramarco inserisca queste geometrie assolutamente caratterizzanti e da leggersi chiaramente in continuità con la sua professione di architetto. Ne emergono pertanto delle opere che superano il confine tra progettazione formale e pittura, compenetrando le due istanze in un'abile sintesi compositiva. L'unione tra entità umana viva e composizione è ben evidente in Ragno. In questo dipinto, infatti l'insetto non è rappresentato mimeticamente, ma la sua forma è evocata dall'intreccio tra una figura antropomorfa, nuda e accovacciata, e una serie di linee diagonali, onzzontali e verticali, le quali nel loro dipanarsi, rimandano alle zampe dell'insetto. Anche la scelta del rosso evoca il cromatismo iconico del celebre supereroe Uomo Ragno. L'incombenza delle forme architettoniche si fa sempre più marcata, al punto da divenire nelle creazioni più recenti dell'artista un elemento che piega l'umano; ciò accade in dipinti come Selva Oscura, dove con un effetto labirintico e spiazzante, corpi rettangolari incatenano e frammentano una figura riversa sul suolo.
Quest'ultima, che nella descrizione anatomica ricorda le presenze metafisiche di Giorgio De Chirico, è prigioniera delle architetture. L'artista muove quindi il fruitore ad una delicata riflessione sui meccanismi della società che limitano, costringono e avviluppano la libertà del singolo. Medesimo effetto si riscontra nell'Archeologo, diversamente dall'opera sopracitata però, qui la pittrice decide di rappresentare una mezza figura e delle forme geometriche più piccole che si arrampicano lungo il collo e il torso della stessa, la quale sembra tentare vanamente di arrestarne il movimento con la mano. Si nota, allo scopo di intensificare l'effetto di oppressione e di inquietudine, un diverso uso della cromia: ai colori smaltati e vividi che caratterizzavano le opere precedenti, si sostituisce un fine e chiaroscurato uso di terre brune.
Peculiare nella riflessione della Moramarco è la questione dello spazio. La tridimensionalità delle forme geometriche descritte deve fare i conti con la bidimensionalità del supporto del dipinto.. Ne scaturisce un effetto straniante nello spettatore, il quale si fa incantare dalla visione a tutto tondo dell'architettura per poi rendersi conto che essa soggiace alla dimensione piatta della tela. Una realta o spazialità evocata. L'effetto di soffocamento dei prismi è ancor più evidente nell'opera Travolti. Qui la figura umana si riduce alla sola rappresentazione della testa, la quale, in alcuni casi, viene sezionata dalla presenza del volume.
La cromia torna ad essere più chiara e calda, ma alle campiture piatte si sostituiscono le sgocciolature del pennello, piccoli tasselli di colore vanno ad intaccare la perfezione delle strutture.
Ulteriore espressione della riflessione sulla spazialità, che stavolta rompe la bidimensionalità del supporto, è la serie di grafiche Nostalgia del totalmente altro. In esse, alcuni disegni di architetture composite realizzati a china, vengono ingranditi, dipinti e riportati sulle prime pagine dei giornali, stampati digitalmente su carta, in serie limitata con stampa giclée e infine montati su pannelli di alluminio. A proposito di questa nuova invenzione l'artista scrive: "Il mondo del quotidiano, anche nei suoi eventi più eclatanti, è allontanato, quasi negato da un gesto, da una mano di bianco su cui disegnare un mondo sognato di Architetture e di Dei che vivono nella libertà della forma e dei colore. Nasce così Is possibilità di un gioco, a volte crudelmente ironico, di sovrapposizioni, cancellature e trasparenze. ·
Anna Maria Moramarco, di fama. consolidata, è stata protagonista di numerose esposizioni personali.
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Gabriele Scarcia
scrittore e storico dell'arte
Il tesoro della Basilicata, La Nave di Teseo , Milano, 2017
pp.223-226
Mantegna ha fatto secoli fa, quello che dovrebbero fare molti degli pseudoartisti moderni. Quello che provano a fare odiernamente i protagonisti dell'arte Pop della Transavanguardia attraverso il post-classicismo. Quello che fa la lucana Anna Maria Moramarco, c he dipinge scolpendo, con uno sguardo puntato al non finito michelangiolesco, al paradigmatico Cristo in scarto di Brera, con i corpi muscolosi, distesi, seduti, reclini che faticano a disincastrarsi dalla materia, quasi sintetizzando le due anime creative del Mantegna.
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Prof. Nicola Troiani
Storico dell’arte
Presentazione della mostra personale presso la galleria di Zina d'Innella, Bari 2013
Di primo acchito appaiono figure che si scompongono tra blocchi di materia, vi si pietrificano, masse che si frammentano tra solidi. Ma a ben vedere può essere il contrario. Ossia che i corpi si stiano formando, nel senso che sotto il nostro sguardo stanno acquisendo la forma e quindi cominciano ad esistere.
Mythos in greco antico è il racconto breve, non dettagliato come invece è il logos definitorio e tale da sfuggire all’ipoteca razionalistica. E cosa più di un’immagine è un mythos? E quale immagine tra le infinite che costellano la nostra vita lo è meglio di queste che sono quello che sono, non chiedono neppure di essere spiegate? L’ emergere e il venire alla vita di questi esseri, tra i blocchi aguzzi taglienti della sostanza informe, ricorda l’antichissimo mito dei Giganti, i nati dalla terra, ma anche degli Automi, fatti di rame, di pietra e di legno.
Però la componente cosmologica non è la sola del mito, che è la rappresentazione del nostro essere più sconosciuto e profondo. Poiché i Giganti e gli Automi non nascono dal grembo della donna, a loro è destinata la solitudine, e infatti le immagini sono tutte maschili di uomini che cercano le donne: la Genesi racconta che i Giganti erano i figli degli angeli e delle donne mortali, degli ibridi di solitaria grandezza. Nel mito Zeus sconfigge i Giganti, instaura sulla terra la civiltà la razionalità e l’ordine, gli Automi sono i perdenti. Ma siamo proprio sicuri che siano tutti scomparsi? Non è che continuano a vivere, nei nostri sogni?
At first glance you can see figures petrifying or fragmented between blocks of matter. But on closer inspection it can be the opposite. Namely that the bodies are forming, in the sense that under our eyes they are acquiring their shape, and then begin to exist.
Mythos in ancient Greek is the short story, not as detailed as is the logos. And what more, than an image, is a myth? And what image of the infinite that punctuates our lives is better than those that are what they are, they do not even ask to be explained?
The emergence and the coming to life of these beings among the sharp blocks of unformed substance remind us of the ancient myth of the Giants, born from the earth, but also the myth of Automata, made of stone, wood and copper.
But the cosmological is not the only component of myth, which is also the representation of our being, the most unknown and deep. Since the Giants and Automata are not born from the womb of a woman, they are destined to solitude, and in fact all these beings are men seeking women. Genesis relates that the giants were the children of angels and mortal women, hybrid entities of solitary grandeur. In the myth, Zeus defeated the Giants and established civilization, rationality and order on earth; Automata are the losers. But are we really sure that they all disappeared? It’s not that they continue to live, in our dreams?
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Paolo Levi
Critico d’arte
Primo Trofeo internazionale “Arte Impero”, Luglio 2016
Anna Maria Moramarco traspone sulla tela una sua dimensione metafisica in cui rovine di edifici geometrici e di corpi si infrangono sulle rive della coscienza collettiva. Immagini di inusitata potenza stilistica e di significato. L’artista cura il disegno nei dettagli, esalta le sfumature create dalla luce sui corpi che sembrano fondersi con la materia, accosta i colori calibrandoli per renderli messaggeri degli stati d’animo che hanno accompagnato l’idea creativa. Apre così, sotto lo sguardo dell’osservatore un universo misterioso, che annuncia verità indagabili solo scavando nelle profondità dell’inconscio. L’artista segue canoni estetici propri del contemporaneo e cura con particolare attenzione i contrasti chiaroscurali che danno sostanza materica ai significati sottesi che risiedono non tanto nell’impianto coloristico, quanto negli accenni enigmatici inseriti nel dipinto che coinvolgono chi guarda in un gioco criptico di reinterpretazione.
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Azzurra Immediato
Storico e critico d’arte
Dal catalogo della mostra “Arte a Palazzo”, Bologna 2015
Pars costruens e pars destruens come fili conduttori delle composizioni di Anna Maria Moramarco. Nulla a che vedere, leggendo i titoli, con gli antichi edifici egizi né con la decantata selva dantesca, seppur le metafore, nella ricerca pittorica della Moramarco, non mancano. E’ pur vero che nella sua passione per l’arte entra in gioco l’architettura, ma essa è utilizzata al fine di costruire un mondo ex novo che sia specchio - oscuro e veritiero - del nostro universo, ma procediamo con cautela nell’interpretazione.
La Moramarco è nata a Matera, laddove la fusione tra natura e architettura si fonde in maniera inscindibile, senza seguire canoni estetici, quanto, piuttosto, riflettendo il caos umano. Intricati vicoli creano labirintici percorsi tra i cunicoli dei Sassi e tra buie intercapedini rocciose, la pietra messa dall’uomo si abbarbica sulla roccia preesistente creando un amalgama introflesso. Questa plasticità delle forme, il divario tra luci ed ombre, la Moramarco l’ha portato con sé, anche quando, giunta a Potenza ha aperto una propria galleria d’arte.
Al contempo, l’urgenza espressiva si è tramutata in bisogno di dipingere, di portare sulla tela l’esplorazione di un mondo decisamente inusuale, che non riportasse un mimetismo del dato oggettivo. Nonostante la traduzione in pittura dei suoi soggetti risponda alle regole della buona anatomia e della buona costruzione architettonica, l’artista ci introietta in un brumoso, oscuro non-luogo augeiano composto di stranianti geometrie volumetriche che inglobano/fagocitano dei corpi umani.
Le forme geometrizzanti sembrano come crescere dalle profondità, distruggendo ciò che sul loro cammino incontrano. Le mutazioni di questi volumi si ritrovano ad essere un parallelo con le speculazioni antologiche alla base dell’atto epifanico e artistico medesimo, che prendono sostanza attraverso il colore ad olio missato con i gessetti.
Organismi simili a figure emblematicamente asessuate, tali da simboleggiare l’umanità intera, sono avviluppate dalla materia, pesante, opaca, compatta. Si ha l’impressione di sondare un luogo completamente deserto e pietrificato, altamente perturbante e opprimente nel suo senso di straniamento.
La lettura fruitiva toglie il fiato, lo spazio reale è come fagocitato da quello dipinto e, al contempo, esso quasi non si trattiene, cascando rovinosamente nel nostro spazio. La tridimensionalità, che è uno dei caratteri capitali della figurazione della Moramarco, è metafora di un reale ancor più riconoscibile pur nella sua paradossale estraneità.
Mondi visionari, metafisici e surreali quelli dipinti dall’artista italiana in cui tempo e spazio si annullano vicendevolmente, dando luogo ad una sorta di limbo sospeso, in cui l’evocazione è l’atmosfera che si respira.
L’artista ha creato una sorta di codice, un linguaggio intrinseco alla sua figurazione che ipnotizza e poi acuisce la sinestesia dell’analisi fruitiva.
L’osservatore si sentirà bloccato, in una sorta di dimensionalità che non lascia spazio al movimento - come farebbero intendere, teoricamente, le costruzioni volumetriche - ma afferra la libertà d’azione e la circoscrive all’atto della riflessione. Da questo momento in avanti, tuttavia, la strada, il percorso offerto dall’artista si fa salvifico e catartico: prendendo avvio dai mondi materiali che costruisce la Moramarco, l’osservatore, l’artista stessa e l’umanità possono ripensare ad una ricostruzione ex novo, fare tabula rasa di queste geometrie, che sono essenzialmente esistenziali, e dar luogo ad una rinascita.
“Pars destruens” and “Pars construens” as the connecting thread of the compositions of Anna Maria Moramarco.
Nothing to do, reading the headlines of some works, with the ancient Egyptian buildings nor with the dark forest of Dante, albeit there is no shortage of metaphors in the pictorial research of Moramarco. It ‘s true that in her passion for art architecture comes into play but it is used in order to build an ex-novo world that is a mirror - dark and truthful - of our universe. But let’s proceed with caution in the interpretation.
Anna Maria Moramarco was born in Matera, where nature and architecture blend inseparably, without following the aesthetic, but rather reflecting human chaos. Intricate alleys create labyrinthine paths between the “Sassi” caves. The stones added by man cling to the pre-existing rock, creating an introverted amalgam. Moramarco brings with her this plasticity of forms and the dramatic interplay between light and shadow.
At the same time, her expressive urgency has morphed into need to paint, to bring to the canvas the exploration of a very unusual world, not the passive imitation of an objective reality.
Although the translation into painting of her subjects complies with the rules of good anatomy and good architectural construction, the artist introduces us to a dark “non-place” composed of alienating volumetric geometries that incorporate and engulf human bodies.
The geometrical shapes seem to rise up from the depths, destroying everything that stands in their path. Mutations in these volumes are found to be a parallel with the basic artistic act, taking substance through oil paint mixed with oil pastels.
Organisms like figures symbolically sexless (so as to symbolize the whole of humanity) are enveloped by a matter that is heavy, opaque and compact. One has the impression of venturing into an entirely desertlike and petrified, highly disturbing place, oppressive in its sense of alienation.
The fruitive reading of the paintings takes your breath away, as if the real space was engulfed in the pictorial space, and at the same time, the pictorial space does not hold back, but falls into ruin in our real space. The three-dimensionality, which is one of the chief characters of the figuration of Moramarco, is a metaphor for a reality clearly recognizable despite its paradoxical strangeness. Visionary, metaphysical and surrealistic worlds, are those painted by this deeply Italian artist in which time and space cancel each other out, in a kind of limbo, in which evocation is the atmosphere.
Anna Maria Moramarco has invented a kind of code, a language inherent to its figuration that hypnotizes and sharpens the synesthesia of our fruitive analysis.
The observer will feel locked in a kind of dimensionality that leaves no room for movement, grabs the freedom of action but expands the space of reflection. From now on, however, the road offered by the artist becomes salvific and cathartic.
On the basis of the material worlds that Moramarco builds, the observer, the artist herself and humanity can rethink a reconstruction ex-novo, make a clean sweep of these geometries, which are essentially existential, and give rise to a renaissance.
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Sandro Serradifalco,
critico d’arte
direttore artistico di EA Effetto Arte, Luglio 2015
Anna Maria Moramarco è una pittrice contemporanea nello stile e nella forma concettuale. Elabora composizioni di grande significato e attualità, sfruttando tematiche sociali per delle suggestive riflessioni immaginifiche, che altro non sono che i suoi lavori.
Marmoree figure si ergono al di sopra di imponenti architetture, incastrandosi in mezzo ad architravi, anfratti e squarci; possono sembrare oggettivamente scenari di una moderna guerra, potrebbero sembrare proiezioni metaforiche di un pensiero astratto, ma quello che è certo è l’incontenibile vigore del suo linguaggio segnico. Un linguaggio il cui alfabeto è fatto da simboli figurativi, da immagini il cui valore segnico si erge sopra le impressioni visive, rivelando il mistero delle opere.
Una tecnica pittorica impeccabile che denota non solo una profonda capacità espressiva, ma anche un innato talento tecnico, sviluppatosi negli anni grazie alla sua fervente voglia di studiare e imparare; il colore ben steso che rende alla perfezione le atmosfere spesso cupe dei dipinti, esaltandone la personalità.
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